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E, se è vero che niente capita a caso

“Vedere l’uno nei molti e i molti nell’uno” THAY

E, se è vero che niente capita a caso,

ciò che sta succedendo nel mondo, questo momento così delicato, dovrebbe invitarci ad una riflessione per poi, subito dopo, aprirci ad una comprensione più profonda.

Prima fra tutte quella di riconoscere che la qualità del nostro incedere nella vita dipende da noi.

La malattia, i virus, anche quelli che non conosciamo, da sempre, sono parte della nostra esistenza al pari della salute, della prosperità e dello stesso Amore, ed è nostra la responsabilità di svegliarci affinché, nelle difficoltà, le nostre scelte siano ben direzionate verso il raggiungimento del bene personale e insieme di quello comune.

Troppe volte pensiamo, parliamo ed agiamo senza una comprensione vera, questo oggi non appare più possibile.

Che sia questa l’occasione per uscire finalmente dalla miopia e comprendere il significato dell’interdipendenza che ci lega così profondamente e così da vicino?

Paradossalmente, l’invito attuale a limitare le distanze a non toccarci, neanche a sfiorarci, ci rimanda a quanto siamo interconnessi , e alla necessità di esserlo. Anche se apparentemente lontani ci scopriamo improvvisamente molto più vicini di quanto crediamo e di quanto quel filo sottile della nostra “vulnerabilità esistenziale” ci leghi e ci accumuni tutti senza alcuna distinzione di genere.

Improvvisamente, percepiamo quanto i nostri stati d’animo che siano la gioia, la tristezza, il disagio o la paura siano così fittamente collegati con quelli di tutte le forme esistenti da ritrovarci uniti nel sentimento riscoperto della nostra fragilità.

Da qui parte l’avventura: potremo iniziare il viaggio più importante di tutta la nostra storia evolutiva attraverso un percorso in grado di riportarci agli albori della nostra esistenza, per renderci Tutti un po’ più umili e grati. Potremmo acquisire la capacità di andare oltre la paura, poiché la paura separa, irrigidisce, rende immobili e miopi e comprendere che la risoluzione dei problemi, così la nostra sopravvivenza, è sempre una questione di scelta responsabile e soprattutto rivolta all’interesse comune.

“Vedere l’uno nei molti e i molti nell’uno” Thay

La parola IN-TERESSERE coniata mirabilmente dal maestro T.N.H appare in questo momento più che mai attuale e densa di significato.

Ci indica quanto la separazione, non sia mai effettiva ma solo nella nostra mente.

La comprensione piena di non poter esistere solo per se stessi ci accompagna al di là del nostro piccolo mondo egoico: torniamo a percepirci come parte di quell’intima connessione con e fra tutto ciò che esiste per, finalmente, aprirci all’esperienza bellissima e riparatrice della Gratitudine.

Allora, forse, nel condividere, quel senso di angoscia che da sempre si accompagna alla consapevolezza della nostra “impermanenza” apparirà meno pesante e ci sentiremo meno soli.

Adesso, come nei momenti di maggiore difficoltà, la dovuta riflessione lasci emergere la parola “Unità”, in quanto strategia migliore, e “l’antivirus” più potente, a nostra disposizione, per la salvaguardia della nostra specie e del Pianeta che ci accoglie.
Usciremo da questo momento così difficile, ne usciremo nel modo migliore, ma non lasciamo che il significato profondo dell’invito proposto, si perda nel vuoto.

Meditazione, una strategia di vita

Siate liberi! Liberi, ma non incoscienti.

Riprendetevi appieno la libertà di discernere: verità dalla menzogna, coerenza dalla contraddizione, discriminazione dalla falsa tolleranza…

È possibile.

Trovate un luogo, il vostro cuscino di meditazione dove sedervi o semplicemente un angolo quieto della vostra casa dove tornare ad assaporare un po’ di silenzio.

E nel silenzio, datevi il tempo di lasciar dissolvere le coltri generate dalla confusione e dall’ignoranza, restituite spazio alla vostra mente, uscite dalla paura e lasciate emergere le strategie migliori e necessarie.

La vera libertà passa attraverso la chiarezza e questa passa attraverso la retta conoscenza. Quando la mente è quieta lo stato emotivo è contenuto, la presa di coscienza è piena, la chimica nel corpo si modifica e il sistema immunitario ne trae giovamento.

Quando meditiamo operiamo la scelta di attraversare il percorso della nostra vita ad una vibrazione ben più alta rispetto alla paura, quella dell’amore.

E.F.

Mauro Bergonzi a Livorno: l’importanza dell’incontro

Attraverso queste poche righe, vorrei esprimere un sentimento di profonda gratitudine nei confronti di Mauro Bergonzi.

Un caro amico che, forse più di tutti, ha contribuito a farmi guardare nella giusta direzione, dove la realtà, la vita non possono essere il risultato di una ricerca, di un percorso, perché sono già qui, adesso.

Solitamente, anche nei momenti più “belli” quando sembra che tutto “fili liscio”, può far capolino un sentimento di insoddisfazione, la sensazione che manchi “qualcosa”. Da qui, può nascere il bisogno della ricerca, il volgersi verso uno e/o più innumerevoli percorsi presentati da altrettante discipline spirituali dell’oriente, come dell’occidente.

Può accadere che dopo aver cercato, anche per lungo tempo, quel “qualcosa”, l’unità, l’essenza, la verità, la liberazione, l’illuminazione, dio, ti accorgi che la ricerca contiene in sé un’illusione, ovvero che possa esistere un “io” individuale, un corpo-mente separato da tutto, dalla vita, capace di seguire un percorso per migliorarsi, purificarsi, concentrarsi, meditare ed ottenere così ciò che manca.

Ma, com’è possibile la presenza di un “io” qui e della vita là ?

La vita è già qui, è una. Allora niente manca. Non ci sono “io” e la vita, c’è la vita.
Allora, ciò che cercavo non è “la fuori”, ma qui, nel punto esatto dove nascono tutte le domande.
Semplicemente, non me ne ero accorto o me ne ero dimenticato.

Grazie Mauro di venire qui di tanto in tanto a ricordarcelo.

Claudio

NON DUALITÀ

Perché parlare di visione non dualistica e della necessità di coltivare una visione non duale della realtà?

Potremmo partire dalla comprensione che non dobbiamo aggiungere niente altro a ciò che siamo e di quanto per comprendere noi stessi come anche la nostra realtà, non sia necessario aggiungere nessuna comprensione mentale a ciò che già è evidente e completo di per sé.

Questa comprensione ci porterebbe probabilmente a semplificare la nostra vita e a guardare alla validità di tutto ciò che pensiamo di sapere su noi stessi, sugli altri e dei ruoli che, di volta in volta, indossiamo per poterci riconoscere.

“Io sono questo, io sono quello è sogno, mentre l’io sono puro e semplice, ha impresso in
sé il marchio della realtà” Sri Maharay Nisargadatta.

Viviamo costantemente nella percezione di essere separati gli uni dagli altri, di essere diversi, migliori o peggiori, buoni o cattivi rispetto ad un assioma che ci siamo noi stessi costruiti e, questa dicotomia, che costantemente scandisce la nostra esistenza alimenta le nostre illusioni sottraendoci la libertà e la corretta visione della realtà.

Del resto la visione dualistica non fa altro che alimentare e sviluppare quello che comunemente chiamiamo “ego” e poiché come sostiene lo stesso Jung “non si supera niente che non sia attraversato”, allo stesso modo e’ necessario riconoscere toccare il nostro ego per poterlo trascendere.

Paradossalmente, appare sempre complesso comprendere ciò che in realtà è molto semplice ed essenziale già in sé: la nostra mente e’ cosi’ tanto persa nella ricerca e abituata alla comprensione razionale da allontanarci dalla immediatezza dei fenomeni e dalla magia di ciò che spontaneamente accade momento dopo momento.

Solo facendo esperienza della separatezza possiamo ritrovare la nostra integrità “non duale” e la nostra libertà.

L’esperienza non duale non si spiega, non si cerca mentalmente è qualcosa che accade nel momento stesso in cui sperimentiamo la separatezza perché in essa già contenuta, è un’esperienza che vibra all’interno e si manifesta con una tale e piena consapevolezza per attraversarci al di là di ogni esperienza mentale, concettuale e psichica.

Non è qualcosa che è al di fuori di noi perché siamo noi quella stessa esperienza: siamo il sorgere, la continuità e il termine di quella esperienza.

“Non puoi capirlo puoi solo esserlo”.

Nello voga credo che Shavasana sia la posa che meglio possa rappresentare l’esperienza della non separatezza: l’attività appena svolta si e’ conclusa per trovarci supini e allineati in un’unica posa, dove ogni ricerca cessa e dove il senso di separazione e di diversità viene superato per lasciare spazio ad un’unica coscienza condivisa.

E così nella meditazione, l’insegnamento di J. Krishnamurti invita a sedersi, sedersi e basta senza ricerca, senza aspettativa, senza neanche più ricorrere al supporto del respiro, perché tutto ciò che è, tutto ciò che serve è già lì sul nostro cuscino.

Ed e’ per tutto questo ed altro ancora che, periodicamente, rinnoviamo l’invito a Mauro Bergonzi, uno dei più autorevoli maestri nel campo della non dualità, di venirci a trovare.

Il fascino della danza sufi, un eterno cerchio magnetico

Il fascino della danza sufi, un eterno cerchio magnetico

C’è qualcosa di soprannaturale e magnetico nell’osservare la danza tradizionale sufi, che vede protagonisti i dervisci rotanti in un movimento eterno e senza tempo, nel nome dell’equilibrio spirituale e di una meditazione profonda. Lo scopo di questa rotazione vertiginosa è entrare in un’estasi rituale che accelera fino a far incontrare la mente del danzatore con la dimensione cosmica alla quale egli sente di appartenere. E’ la musica stessa, con il suo inesorabile e ritmato incedere, a suggerire una certa solennità all’intera scena: un fermo immagine perfetto, che parla attraverso l’espressività del corpo e il modo in cui le braccia e il volto del danzatore si trasfigurano nel trasporto mistico. Una devozione di sottofondo trapela lentamente e va a suscitare un innato senso di rispetto verso l’atto in sé della danza. Che è uno spettacolo musicale e anche una cerimonia religiosa, capace di condensare oltre settecento anni di storia ma allo stesso tempo di essere profondamente moderna e comunicativa. Non ci sono mai figure uguali, i danzatori realizzano e interpretano ogni volta entità che sono assolutamente uniche e del tutto irripetibili: appena la musica accenna le prime note iniziano a ruotare senza posa facendo perno su di un piede. Una mano, la destra, è rivolta verso il cielo per accogliere la grazia divina che entra nel corpo direttamente dal palmo. Mentre invece l’altra, che è rivolta verso il basso, rappresenta la sorgente di vita: comunica l’influsso celeste che si scarica attraverso di essa sul mondo mortale.

La simbologia dietro a un movimento perfetto

Ogni cosa e ogni essere vivente che popola l’universo per sua essenza gira: il cerchio è la forma perfetta per rappresentare la forza creatrice della vita. Tutto è rotondo (la nostra Terra, le stelle, le galassie) e il cerchio sta anche a simboleggiare il movimento che compiono i pianeti intorno al sole. I danzatori ruotano all’unisono sul palco al ritmo della musica fino allatto finale: un inchino. Riuscire a imparare il gesto del ‘lasciarsi andare’ serve a divenire parte proprio di quello stesso moto rotativo che è caratteristica intrinseca del Creato. Il cerchio è anche la forma dell’armonia: il movimento della danza sufi è perfetto e immutabile, plasmato da secoli di storia. Nessuna variazione lo riesce a scalfire, è un mix di istanti tutti uguali tra di loro che scandiscono e rappresentano il concetto del tempo. Questa danza tradizionale concretizza e raccoglie in sé un esercizio spirituale interiore, che consente di mantenere un equilibrio che è fisico ed emotivo: un traguardo che è possibile raggiungere solo dopo aver maturato un’esperienza che può richiedere anche degli anni. La parola ‘suf’ in arabo vuol dire lana e racconta in parte la genesi di questa filosofia: i primi danzatori nei secoli scorsi erano infatti degli asceti che popolavano i deserti e avevano come abito solamente una tunica lunghissima e pesante, fatta appunto di lana (che stava a testimoniare la loro rinuncia ai beni e alle passioni mondane), la quale era spesso logora e ricca di toppe. L’abbigliamento del danzatore sufi è esso stesso parte integrante dell’iconicità del gesto: il copricapo ha una caratteristica forma allungata e simboleggia la tomba dell’ego, la tunica è ampia e si apre in una gonna molto larga che scandisce il ritmo del ‘giro’. Questo grande cerchio sta a rappresentare l’infinito ruotare del cosmo intorno al centro dell’universo.

La ricerca dell’equilibrio, tra meditazione e vertigini

Le origini del sufismo affondano nel lontano VIII secolo d.C. tra le regioni di Persia e Turchia, con un’influenza che poi si diffuse e toccò anche l’India. Essendo la natura di questa filosofia decisamente contemplativa, il sufismo ha sempre favorito lo sviluppo di arti che sapessero esprimere l’inconscio umano come musica e poesia. Bisogna andare un po’ più avanti nel tempo, fino al XIII secolo d.C., per trovare traccia dell’ordine dei dervisci rotanti (detto anche ‘di Mevlevi’), che venne fondato dal mistico sufi Celaleddin Rumi. La danza e la musica, secondo la sua convinzione, erano capaci di indurre all’estasi che liberava gli uomini dalle ansie della vita di tutti i giorni. La danza tradizionale sufi, che si compone di distinti e diversi ‘momenti’, è molto lunga: gli sguardi di chi sta intorno si soffermano come catalizzati dalla sinuosità dei movimenti del giro, incuriositi dalla assoluta mancanza del senso di vertigine. Non c’è mai perdita di equilibrio da parte dei dervisci rotanti nel corso della meditazione. Anche la scienza si è interrogata su questo fenomeno affascinante, scoprendo che c’è una predisposizione fisica e strutturale dei danzatori sufi. Essi hanno una plasticità corticale importante, responsabile dello straordinario equilibrio che si traduce nella serie di cerchi concentrici. Una manifestazione di ispirazione divina, che fonde al suo interno tre elementi principali della natura umana. Innanzitutto il cuore che raccoglie tutte le emozioni, poi la mente all’interno della quale risiedono la saggezza e la conoscenza, infine il corpo che – con il ritmico roteare – mette in movimento la vita stessa.

Il ruolo della musica nella danza

La parola derviscio letteralmente significa ‘monaco mendicante’ e sta a identificare i discepoli di determinate confraternite islamiche che – durante il loro cammino di ascesi – si distaccano dalle passioni e dai beni terreni. Appartengono alla comunità dei sufi e si propongono di raggiungere una connessione con la divinità attraverso l’estasi della danza turbinante: i confini del misticismo di questo gesto secolare si intrecciano con le suggestioni di uno spettacolo che è pensato anche per incantare il pubblico. C’è da sottolineare infine il ruolo assolutamente centrale che è rivestito in questo senso dalla musica: è lei stessa a scandire l’intero percorso meditativo, in una totale sintonia filosofica di pace interiore. Durante il giro si alternano o si mescolano abilmente sia voci che suoni. Con l’accompagnamento delicato delle sinuosità del ‘nay’, o flauto verticale, e di piccoli timpani che contribuiscono a dare il ritmo insieme al tintinnio di piatti di rame. Alla danza tradizionale sufi partecipano da un lato cantanti e suonatori mentre dall’altro si trovano il Maestro che sovrintende la cerimonia e poi naturalmente tutti i danzatori. Il loro volto si abbandona lentamente all’estasi, trasudando quella che è l’essenza stessa della spiritualità: una via privilegiata attraverso la quale raggiungere l’immersione del proprio ego nell’armonia universale.