Yoga e Buddhismo tra pratica e dottrina, che cosa le accomuna | Yoga Time Livorno

Yoga e Buddhismo tra pratica e dottrina, che cosa le accomuna

Yoga e Buddhismo tra pratica e dottrina, che cosa le accomuna

Si fa un gran parlare oggi di discipline quali lo Yoga, il Buddhismo, la Meditazione. Molto frequentemente non si tiene conto del fatto che vi sono non un solo Yoga, un Solo Buddhismo, una sola Meditazione, ma una grande varietà di scuole e dottrine, ciascuna delle quali con il proprio corpus di regole ascetico-dottrinali, spesso estremamente variegato. Non è certamente questo il contesto in cui passarle in rassegna. In questo breve scritto non vi sono di queste ambizioni, si tratta soltanto di un tentativo di delineare a brevi linee quanto viene indicato nel titolo, con tutte le lacune che, ovviamente, può presentare una tale scrittura. Certamente, oggi più che mai, data la situazione di incertezza in cui viviamo, si avverte il bisogno, perlomeno da parte di molti, di volgere l’attenzione a qualcosa che possa indicarci una via di uscita da questo stato di cose; di recidere, in qualche modo questa vita che si percepisce, a ben ascoltare, effimera, precaria, illusoria, dolorosa, e poter riemergere (in “un altro corpo”), alla vita che renderà possibile l’accesso alla liberazione nella vita stessa. Proviamo ad indicare sommariamente che cos’è questa liberazione, quali percorsi ci vengono proposti dalle discipline soteriologiche, in particolare dallo Yoga e dal Buddhismo.

Lo studio di discipline filosofico-religiose orientali e, dunque, anche quelle che hanno origine in India, ha sempre comportato per gli studiosi non pochi problemi. La trasmissione orale di principi, regole e tecniche ascetiche che, soltanto dopo diverso tempo (anche quattro secoli dalla loro formulazione, ma spesso parecchio di più) potevano trovare una codificazione in forma scritta, ha determinato la scarsità nonché la sovrapposizione di dati storico-cronologici affidabili.

 

UN INVITO COMUNE: LIBERARSI DALLA SOFFERENZA

Tuttavia, oggi si concorda che lo scopo di tutte le filosofie, religioni e mistiche indiane, dunque anche dello Yoga e del Buddhismo, consiste nel liberarsi dalla sofferenza. L’aspetto centrale del Buddhismo, fatto proprio anche dal Samkya-Yoga e dal Vedanta, è la sofferenza e la liberazione dalla sofferenza. Che tale liberazione sia realizzata mediante la conoscenza, seguendo dunque l’insegnamento del Vedanta e del Samkhya, o la si realizzi attraverso la pratica di determinate tecniche ascetiche, come indica lo Yoga e la maggior parte delle scuole buddhiste, il fatto è che nessuna “disciplina” ha valore se non persegue la salvezza dell’uomo. Per lo Yoga, la salvezza umana è determinata da una illusione:  che la vita umana (sensazioni, pensieri, percezioni) sia identica allo spirito, al Sé, al Purusha. L’uomo confonde così due realtà indipendenti che appartengono a due modi di essere. La liberazione si verifica quando il Purusha, il Sé, acquisisce la sua libertà iniziale. Potremmo intendere  questo Sé come Consapevolezza pura, non derivata, non condizionata da alcunché. La vera identità dell’uomo non è costituita dal complesso corpo-mente. Lo Yoga induce l’essere umano a prendere distanza dal complesso della personalità, al fine di realizzare la vera identità in quanto Sé. L’essenza umana è dunque la pura Consapevolezza stessa.

Da un certo punto di vista l’essere umano è da sempre “libero”. Dunque la liberazione non è qualcosa da ottenere o da compiere.  Semplicemente può accadere di ricordare, di riconoscere ciò che si è dimenticato. Allo stesso tempo però, da un punto di vista più pratico, lo yogin deve sforzarsi per rimuovere i “veli” che impediscono alla pura Consapevolezza di manifestarsi. Occorre rimuovere le “contaminazioni” che macchiano lo specchio della mente oscurando la luminosità del Sé. Il Kaivalya (isolamento) accade quando scompare la più piccola traccia di contaminazione che consente il ritorno allo “stato originario” trascendente ogni condizione della mente. Un qualcosa di indescrivibile, inconoscibile, che sfugge qualsiasi definizione, anche quella dello spazio-tempo.

Il sistema classico dello Yoga è esposto negli Yoga-sutra , 194 brevi aforismi distribuiti in quattro libri. Ne è ritenuto autore Patanjali. Non vi è chiarezza su chi sia costui; gli indiani lo identificano col grammatico dallo stesso nome  che visse nel II secolo a.C. Dato pero che gli Yoga-sutra  a noi pervenuti sono stati evidentemente influenzati dal pensiero della tarda filosofia buddhista, possono risalire al IV o V secolo d.C. Sembra altamente probabile che  gli Yoga-sutra non rappresentino un’opera a carattere unitario, bensì una fusione di frammenti diversi.

Ad ogni modo, per Patanjali, come si è visto, la salvezza si potrà realizzare soltanto attraverso la sospensione dell’attività mentale, in modo da eliminare ogni oscuramento dell’essenza reale del Purusha, determinato, per l’appunto, dall’intelletto. Tale eliminazione delle impurità dal mentale e l’isolamento del Purusha da tutto quello che non gli appartiene viene dunque effettuato mediante l’attuazione delle cosiddette “otto membra dello Yoga”, esse sono:

  1. la Ritenuta, la padronanza di Sé (Yama)
  2. l’Osservanza (Nyama)
  3. la Postura, la Posizione (Asana)
  4. il Controllo del Respiro  (Pranayama)
  5. il Ritiro dei Sensi (Pratyhara)
  6. la Concentrazione (Dharana)
  7. la Meditazione (Dhyana)
  8. l’Assorbimento cognitivo (Samadhi)

 

Sakyamuni, il saggio della famiglia degli Sakya, conosciuto in seguito con l’appellativo di Buddha, “lo svegliato”, conosce le pratiche  ascetico-contemplative dello Yoga. Si può affermare che il Buddha ha percorso i suoi primi passi proprio sul terreno dello Yoga, per poi tuttavia superare le soluzioni proposte a quel tempo, rifiutando l’esistenza di un Purusha e, dunque, di un qualsiasi principio assoluto. Forse, più che un rifiuto tout-court del Purusha, Egli evita di parlarne perché convinto che tale principio sia troppo incline a soddisfare l’intelletto, impedendo al ricercatore di “risvegliarsi”. Anzi, fino a quando l’essere umano non si sia “liberato” non può esser data una esperienza del vero Sé. Per il Buddha ed anche per tutte le forme dello Yoga, la salvezza-liberazione si poteva realizzare solo in seguito ad uno sforzo personale, non ad una mera comprensione intellettuale, teorica; occorre “comprendere” e, contemporaneamente, “sperimentare” la verità. I preliminari dell’ascesi e della meditazione Buddhista sono comunque analoghi a quelli che raccomandano gli Yoga-sutra ed altri testi classici. La meditazione Yoga, come viene interpretata  dal Buddha, ha il preciso scopo di rimodellare la coscienza del ricercatore, vale a dire di creare una nuova “esperienza immediata” della sua vita psichica ed anche biologica.

Il Buddha indica che la liberazione è il raggiungimento del Nirvana, che consiste  nell’oltrepassare il livello dell’esperienza umana per contattare  l’incondizionato. Egli insegnava pertanto la  via e la metodologia  per liberarsi dalla schiavitù,  dalla sofferenza, per  accedere all’incondizionato, al Nirvana. La Nobile Verità della Via che conduce alla eliminazione della sofferenza (quarta nobile verità), comprende gli otto gradini (otto come le “membra” del cammino proposto da Patanjali negli Yoga-sutra) di una disciplina che deve essere seguita per arrivare alla eliminazione della sofferenza e insoddisfazione dell’uomo. Essi sono i seguenti:

  1. Retta Opinione  (Samma Ditthi)
  2. Retto Pensiero (Samma Sankappa)
  3. Retta Parola (Samma Vaca)
  4. Retta Azione (Samma Kammanta)
  5. Retta Vita (Samma Ajiva)
  6. Retto Sforzo (Samma Vayama)
  7. Retta Attenzione (Samma Sati)
  8. Retta Meditazione  (Samma Samadhi)

Si notino le comunanze tra le due Vie,  non solo nelle quantità, ma soprattutto nelle qualità.

 

UNO SGUARDO AL DI LA’ DI TUTTE LE DEFINIZIONI DOTTRINALI.

La caducità dell’esistenza di questo mondo e di tutto ciò che essa è in grado di offrire  è la ragione per cui la vita viene definita come “sofferenza”. È in questo senso che il Buddha definisce “doloroso” tutto quello che viene sperimentato, non negando, tuttavia, che nell’esistenza terrena vi siano anche sensazioni piacevoli e neutre. Il buddhismo (principalmente della scuola degli anziani, Theravada) nega l’esistenza di un principio cosmico e concepisce il Nirvana come “tutto ciò che è un’altra cosa” al riparo di ogni cambiamento.

E questo “qualcosa” che è al riparo di ogni cambiamento, è oltre, o meglio, prima della mente e del corpo. Non può essere visto, udito, odorato, gustato, toccato. Non può essere percepito, compreso, capito, definito. Non è un oggetto. È ciò che conosce e, in quanto tale, non può essere conosciuto. E’ senza nome, eppure, tutto risplende della sua luce. È prima del pensare o sentire. Come percepirlo allora? Ciò che percepisce è la nostra vera natura. Chi sono io? Sono Colui che pone la domanda.

Un semplice invito quindi, a dare uno sguardo a ciò che lo Yoga ed il Buddhismo  (insieme a tante altre tradizioni spirituali, compresa quella cristiana) indicano al di là di tutti i confini e definizioni dottrinali, e cioè quell’abisso inconoscibile, misterioso e meraviglioso che siamo, dove tutte le parole cessano.

 

Essendo senza tempo non richiede alcun cammino da percorrere, nessun debito da scontare. Perché non ammette niente che sia giusto o sbagliato, né riconosce giudizi o sensi di colpa. È un amore assolutamente incondizionato. Semplicemente aspetta con attenzione, chiarezza, compassione e delizia il mio ritorno quando mi muovo via da esso.                  

Tony Parsons