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Allenare il corpo con lo yoga dinamico

Allenare il corpo con lo yoga dinamico. Le posizioni per aumentare la forza, la flessibilità e potenziare la meccanica respiratoria grazie al Vinyasa.

Lo yoga dinamico è uno stile che vuole unire lo yoga più tradizionale a quello più moderno. È una pratica sicuramente più attiva e impegnativa rispetto allo yoga più tradizionale e per questo meno adatta ai principianti.

A coloro che desiderano comunque partire con questo tipo di pratica, è consigliabile iniziare da un livello base per poi arrivare un poco alla volta a lezioni più complesse. In questo modo si rispetta l’esercizio fondamentale di una progressione sempre graduale e consapevole.

Lo yoga dinamico porta benefici fisici. Si può infatti allenare il corpo con lo yoga dinamico, ma in modo molto diverso dalla ginnastica. Diversamente da quest’ultima, ogni singolo movimento e posizione viene svolta in perfetta sincronia con il respiro. Tutte le asana, comprese le varianti del saluto al sole sono scandite dal  ritmo respiratorio di ogni praticante.

Yoga dinamico o Vinyasa yoga

La pratica del Vinyasa yoga, la cui paternità viene  attribuita agli insegnamenti del maestro krishnamacharya, viene definita in occidente come yoga dinamico.

Yoga dinamico che prevede appunto l’esecuzione di asana in rapida successione e in stretto coordinamento con il respiro. In questo modo la pratica di yoga dinamico può diventare una danza dove il corpo impara a muoversi e a fluire attraverso la musicalità del respiro: una tecnica appunto chiamata Vinyasa o anche Vinyasa yoga flow.

Yoga dinamico e benefici

Le posizioni proposte dallo yoga dinamico sono utili per aumentare la forza e la flessibilità della struttura muscolo scheletrica in chi lo pratica. Inoltre, grazie alla profonda coordinazione tra movimento e pranayama,  i benefici possono estendersi in modo efficace a tutto l’organismo. Sia da un punto di vista funzionale, che biologico.

Infatti, la migliore ossigenazione influenzerà positivamente i sistemi di tutto il corpo a partire da quello respiratorio, cardiocircolatorio, ormonale, endocrino e così via, restituendo alla persona una maggiore vitalità, resistenza e senso di benessere.

Yoga dinamico e benefici sul piano mentale, non sono da trascurare. Se è vero che a un corpo rigido corrisponde una mente altrettanto rigida e viceversa,  alla fine della pratica, grazie alla maggiore fluidità fisica e respiratoria acquisita, sarà possibile riscontrare insieme a una maggiore leggerezza e calma mentale, anche una migliore lucidità e capacità di concentrazione. Da questo punto di vista questo stile può essere di beneficio anche a quelle persone che soffrono di lieve depressione dell’umore.

Un altro beneficio dello yoga dinamico, nel lungo periodo, è quello di aiutare la persona a perdere peso. Questo avviene grazie al potenziamento della meccanica respiratoria e alla conseguente maggiore ossigenazione dei tessuti, che induce la combustione delle cellule adipose.

Le posizioni dello yoga dinamico

Le posizioni dello yoga dinamico sono le stesse del più ortodosso Hatha yoga. Quello che le differenzia è l’aspetto notevolmente più dinamico del primo rispetto alla maggiore staticità delle posizioni del secondo.

Solo a titolo di esempio, di seguito alcune fra le asana principali e più conosciute:

  • adho mukha svanasana  – cane a faccia in giù
  • chaturanga dandasana – il bastone
  • bujangasana – il cobra

La progressione dinamica e ripetuta di queste tre asana consentirà di rinforzare in modo adeguato la schiena e gli arti, consentendo di passare progressivamente a posizioni più complesse.

Come sappiamo, la pratica yoga è una “esperienza terapeutica totalizzante”. Ovvero, in grado di rivolgersi alla persona nella sua interezza e atta a promuovere un profondo stato di rilassamento e di calma interiore, e qui anche lo yoga dinamico non fa differenza.

YOGA DOCET: L’IMPORTANZA DI COLTIVARE UNA CHIARA VISIONE

YOGA DOCET: L’IMPORTANZA DI COLTIVARE UNA CHIARA VISIONE

Abitualmente tendiamo ad esercitare un controllo pressoché costante sulla nostra vita e sulle nostre emozioni senza accorgerci che in realtà, altro non siamo che dei processi che elaborano e attraverso i quali la vita si esprime.

L’esercizio del controllo si interfaccia con i nostri sentimenti di paura  e di incertezza legati alla effimerità della nostra esistenza. Nel tentativo di porci al riparo da quella che consideriamo essere l’imprevedibilità della vita cerchiamo rifugio in un mondo fatto di parole, di concettualizzazioni e di abitudini.

Rispondiamo costantemente alla necessità di definire, etichettare tutto ciò che riteniamo appartenere alla nostra realtà, ripetiamo percorsi e gesti già rivisti come se questa ritualità potesse in qualche modo garantirci un maggiore margine di sicurezza e di tranquillità.

La necessità di restare nella zona comfort

In realtà questo rimanere ancorati a quella che riteniamo la nostra “zona di comfort”, a lungo andare inquina la nostra capacità di visione, il nostro sguardo diviene concentrico e restando imbrigliati nelle nostre abitudini finiamo per spegnere la nostra creatività.

Se provassimo ad ascoltare le nostre parole nel momento in cui le pronunciamo, collocandoci quali testimoni esterni, potremmo accorgerci quanto il nostro linguaggio non sia pulito, bensì carico del nostro vissuto, dei nostri condizionamenti e quanto anche i nostri gesti siano spesso automatici e distanti dal nostro sentire. Questa mancanza di visione e di comprensione diretta determina nel tempo un impatto negativo sul nostro sistema nervoso, rendendoci agiti e reattivi. Ed è questo il motivo per cui molte  persone vivono la loro vita  improntata ad uno stato di  costante inquietudine e insoddisfazione, piuttosto che di calma e di serenità.

In quanto esseri viventi siamo chiamati ad avere una visione diretta di noi stessi, degli altri e delle cose del mondo: una visione chiara, lucida in grado di collocarsi al di là delle parole e di tutte le nostre possibili variabili interpretative.

Educare la mente

Quindi, anziché controllare la nostra vita dovremmo essere in grado di controllare la nostra mente, poiché se questa è diseducata ed ammalata a lungo andare anche il corpo ne seguirà la medesima sorte.

L’immagine può essere quella di un corpo lasciato in balia di una mente incontrollata alla stregua di una macchina senza freni. E lascio a voi dedurre cosa può succedere.

Ecco perché Patanjali enfatizza il controllo dello stato mentale e attraverso Yama – il primo degli otto stadi- ci indica la strada dell’autodisciplina attraverso la quale riprendere le redini della nostra mente.

Semplificare per alleggerire

Attraverso i nostri mi piace e non mi piace, le nostre avversioni e attaccamenti – raga e devsa – finiamo per opacizzare  la realtà così come naturalmente appare. Senza rendercene conto operiamo costantemente uno scollamento, un braccio di ferro  tra ciò che è nella natura delle cose e ciò che invece vorremmo che fosse e alla fine del quale risultiamo inevitabilmente perdenti.

Occorre semplificare. Si tratta essenzialmente di rendere più semplice la modalità con la quale siamo soliti rapportarci a noi stessi e a tutto il resto.  Si tratta di alleggerire togliendo tutte le infrastrutture operate da una mente confusa e timorosa per tornare a vedere le cose come sono realmente.

Lasciando cadere le impalcature mentali e il vocio interminabile delle parole, l’agitazione mentale si arresta  e lo yoga  si manifesta per quello che è realmente : la disciplina della percezione.

Rapporto di non violenza con noi stessi

Nella pratica significa darci la possibilità di costruire un rapporto di non violenza a partire dalla nostra fisicità. Un rapporto che abbia a che fare con  il corpo per quello che è, senza più esercitare su di esso alcuna forzatura. L’esperienza di una quieta e agevole immobilità in asana ci permette di cogliere più in profondità la dinamica respiratoria, dove in particolare l’espiro e la pausa successiva rappresentano una resa, un arrendersi alla “non azione” a vari livelli: un luogo dove poter ristabilire nuovamente una relazione diretta tra l’attività mentale e la percezione della realtà per quello che è.

Occorre ancora una volta uscire da Avidya, la falsa conoscenza che rappresenta fondamentalmente  l’ignoranza riguardo la nostra natura essenziale che non riusciamo a cogliere perché concettualmente sommersa. Nel continuare ad attribuire carattere di verità assoluta alla percezione della dualità dei fenomeni, anziché attribuirla al linguaggio, ai ricordi e alla nostre preferenze, alimentiamo la confusione e il conflitto.

Patanjali nel suo Sadhana Pada  dedica il sutra 17 proprio a  questa questione, ovvero alla confusione che siamo soliti esercitare fra parola, cosa reale e l’idea che abbiamo delle cose, la sovrapposizione delle quali genera equivocità.

Gli equivoci generati da questo stato di cose, come suggerisce Patanjali  sono la fonte  di tutti gli ostacoli e causano effetti dolorosi nelle azioni che svolgiamo.  Occorre sviluppare  un antidoto : educare la mente, renderla nuovamente in grado di perseguire ciò che anche la tradizione buddhista e la vipassana indicano come  Radiosa Chiarezza, quale sorgente imprescindibile del nostro equilibrio interiore.

Cambiare sguardo

Questo tempo così destrutturato che stiamo vivendo potrebbe essere l’occasione per provare a cambiare questo tipo di sguardo, iniziando da noi stessi per lasciarlo poi allargare a tutto il resto. In un’era purtroppo sempre più dominata da scenari impoveriti e confusi, l’idea è quella di trovare un modo dove scambiare dei contenuti diversi, dove anche la pratica dello yoga possa muoversi verso direzioni più autentiche e l’esperienza di vita tornare ad essere gioiosa.

Si fa un gran parlare di consapevolezza, e oggi quasi tutte le pratiche che girano intorno al benessere dell’uomo mirano ad ottenere questo stato a garanzia di uno stato di prevenzione e recupero  da stati di sofferenza e quale preludio di una condizione di vita piena ed equilibrata.

In realtà la consapevolezza non è qualcosa che si deve ottenere o acquisire o aggiungere a quello che già siamo. E’ qualcosa che è sempre con noi, è quella risorsa sempre disponibile, a portata di mano che attende solamente di essere risvegliata per tornare a vedere le cose per quello che sono, posta al servizio della nostra crescita evolutiva individuale e di specie.

Come arrivare all’equilibrio interiore

Siamo continuamente esposti alla sollecitazione dei nostri sensi e questo inevitabilmente agita la nostra mente e ci allontana da quella pace interiore che è indispensabile per il funzionamento di tutto il nostro organismo. Quando la mente non è rilassata è facile preda delle nostre emozioni e questa condizione crea delle contrazioni mentali potenti che a loro volta vanno a contrarre la nostra muscolatura  creando le disarmonie posturali. Si innesca un meccanismo che dalla mente va al corpo e dal corpo alla mente incessantemente. Abbiamo detto che la pratica è una ricerca di spazio e lo spazio indica una forma di libertà. L’importanza quindi di restituire spazio prima di tutto alla nostra mente avere una mente rilassata per ricondizionare positivamente tutta la nostra struttura.

Quando perdiamo uno stato di equilibrio interno lo perdiamo principalmente per una serie di contrazioni mentali che creano squilibrio fra i due emisferi cerebrali. Quando la natura dei nostri pensieri, come spesso succede, entra in uno stato di ripetitività quasi ossessiva, questo prenderà spazio all’interno del nostro cervello andando ad influenzare negativamente la plasticità neuronale. I pensieri afflittivi e ripetuti creano dei  solchi, delle trascrizioni a livello cerebrale che nel tempo possono portare a delle modificazioni neurologiche anche importanti. Inoltre è stato documentato come un’eccessiva sollecitazione e contrazione di uno dei due emisferi possa sollecitare l’apparato muscolo scheletrico e portare anche ad  uno spostamento interno della massa viscerale.

Shanmukhi Mudra

Da quanto detto appare chiaro quanto la nostra mente possa essere considerata la centralina di tutto il nostro sistema psicofisico.Prendersi cura della nostra mente è sicuramente  la strategia migliore per recuperare o mantenere uno stato di equilibrio fondamentale per la nostra salute.

Spesso passiamo da una cosa all’altra al pari di una scimmia inquieta e insaziabile. La pratica di una mudra in particolare ci può aiutare ad ottenere una mente rilassata chiudendo i nostri sensi alle percezioni esterne: SHANMUKHI MUDRA può favorire il viaggio della nostra attenzione dall’esterno all’interno, dall’agitazione alla calma.(ShanmuKhi = chiudere le sei porte della percezione esterna)i due occhi, le due orecchie, il naso e la bocca per favorire l’introspezione ed impedire la dispersione del prana e dell’energia vitale. Favorisce l’equilibrio mentale e la concentrazione e prepara alla meditazione.

Lo yoga ci insegna ad essere nel gesto in modo totale. A volte quando prendiamo una posizione abbiamo la sensazione di non sviluppare uno stato di sincronia, di propriocezione piena quello stato in grado di restituirmi una condizione di benessere e di piena soddisfazione che nasce dalla percezione del mio corpo in movimento nello spazio, a prescindere dal livello di postura che sto eseguendo. E’ quel sentimento di sensualità appagante che si manifesta ed in grado di essere in totale sintonia con quello che sto svolgendo attraverso il corpo. Pensando alla sensualità come uno degli aspetti importanti della nostra vita, insieme al trarre il giusto nutrimento dal buon cibo, al dormire bene e non solo circoscrivibile al solo atto sessuale, ma come momento imprescindibile dell’equilibrio psicofisico della persona  Ho sempre pensato che lo yoga sia lo strumento più importante in grado accompagnarci a ri-innamorarci di noi stessi.

Yoga e diabete, quando le buone abitudini portano benefici alla salute

Yoga e diabete, quando le buone abitudini portano benefici alla salute

I fattori in grado di incidere sulle condizioni fisiche sono innumerevoli, indipendentemente dalla natura o dalla gravità dei disturbi. Vita sedentaria, stress, abitudini scorrette a tavola possono compromettere una situazione non favorevole in partenza.

Ad aggravare il quadro si può affacciare anche una certa predisposizione ereditaria riguardo determinate malattie, soprattutto durante la terza età. Correggere i comportamenti sbagliati diventa fondamentale, in tale ottica: è quanto accade, per esempio, con yoga e diabete.

Insieme a un’alimentazione sana, cure su misura e controlli regolari, tale disciplina consente una gestione (se non una prevenzione) più agevole delle complicazioni derivanti dalle disfunzioni dell’organo pancreas.

 

Yoga e diabete, perché trova così ampio riscontro?

Le pratiche cosiddette orientali, come lo yoga e la meditazione stanno ormai trovando larga diffusione in vari ambiti, e come valida integrazione dei protocolli medici in primis. Al momento attuale non è riconosciuta una capacità guaritrice a tali discipline, ma rappresentano comunque un valido supporto ai trattamenti tradizionali.

Lo yoga mette al riparo dai fattori di rischio per il diabete, almeno quelli monitorabili e permette di arginarne gli effetti negativi quando la malattia sia ormai conclamata. Tutto ciò vale per una serie di motivi strettamente legati allo stile di vita quotidiano :

  • induce uno stato di benessere fisico
  • rasserena la mente e abbatte lo stress
  • consente di mantenersi in forma, soprattutto tramite le correnti di pensiero focalizzate su insegnamenti pratici e posture (tipo hatha yoga)
  • concorre a ridurre la produzione di grasso viscerale
  • influisce positivamente sulla respirazione.

Grazie a una regolare attività, vivere bene con il diabete diventa un obiettivo raggiungibile, anche in presenza di una predisposizione ereditaria.

 

Diabete e stress: una correlazione da non sottovalutare.

Al di là delle implicazioni genetiche, solitamente parlare di diabete significa anche parlare di stress.

In particolare parliamo di distress che è vista come la condizione in cui l’organismo si trova nella condizione di non riuscire a spegnere la risposta adattativa alla fase di allarme sollecitata da un evento esterno spesso traumatico :  l’organismo  resta quindi  in una condizione di iperattività costante  che impedisce il  ritorno ai parametri biologici e funzionali normali nel breve periodo. In questa circostanza il perdurare della sollecitazione in atto avrà come probabile risposta una disfunzionalità organica meglio definita come sindrome metabolica dove uno dei parametri più evidenti sarà l’innalzamento dell’indice glicemico.

Appare chiaro che in questa situazione dovremmo preoccuparci di riportare le funzionalità organiche sotto il livello della soglia di guardia agendo sulla causa che ha scatenato una reattività organica abnorme e incontrollata, ricorrendo ad una terapia farmacologica adeguata ma non solo.

Dal momento che siamo un’unità ad un’alterazione organica importante potremo assistere  anche ad un’alterazione dei normali processi psichici con uno svuotamento a livello psico funzionale ed energetico.

Per questo l’intervento di una pratica di yoga regolare potrà rappresentare una valida soluzione atta a prevenire come a ridurre l’incidenza di alcune complicanze legate alla patologia ed anche  adiuvare gli esiti e bilanciare i possibili effetti collaterali delle terapie prescritte.

Attraverso il riordino del processo respiratorio e il conseguente cambiamento di stato di una mente da alterato ad uno stato di calma, la pratica yoga può condizionare grandemente lo stato psicofisico della persona verso un processo se non di guarigione, di prevenzione e di attenuazione di molti disturbi e nello specifico della patologia che stiamo affrontando: il diabete

Lo yoga ci insegna la capacità di diventare resilienti rispetto alle difficoltà che possono presentarsi durante l’arco della nostra vita e ce ne fornisce se lo vogliamo tutti gli strumenti.

 

Le complicanze relative al diabete

Mettere in atto gli esercizi yoga con il diabete è importantissimo per prevenire le complicanze legate a questa malattia metabolica, indipendentemente dalle sue origini. In particolare argina il pericolo di:

  • candidiasi diffusa su tutto il corpo
  • problemi alla retina
  • disturbi cardiaci
  • problemi al sistema nervoso
  • anomalie della coagulazione del sangue
  • aumento del rischio di ictus e infarto.

 

Una pratica efficace indipendentemente dal tipo di diabete

Non è importante conoscere la causa della patologia, per valutare la bontà degli esercizi yoga in caso di diabete. In altre parole, che si tratti di una sindrome auto-immune o derivante dall’invecchiamento, gli effetti sono visibili in entrambi gli scenari.

Da non dimenticare poi l’importanza della meditazione : esiste ormai un’ampia letteratura medico scientifica che  ha visto agire questa disciplina, anche  in modo significativo, nel ridurre  sintomi spesso correlati al diabete  quali la pressione sanguigna e la frequenza cardiaca,

Tutto ciò riguarda, quindi, anche il rischio di diabete senile o di tipo 2 (DMT 2) e non solo di tipo 1, più frequente tra i bambini e persone in età giovanile e per i quali si evidenzia la necessità di osservare ed agire sul comportamento alimentare fin dalla tenera età.

Le discipline yoga col diabete sortiscono benefici tanto più evidenti quanto più l’adesione al protocollo è rigorosa: attenersi alle cure, pertanto, rimane l’indicazione fondamentale da seguire.

Inoltre, per trovare numerose pubblicazioni al riguardo, è consigliato fare riferimento a Pubmed, la più autorevole raccolta di letteratura scientifica biomedica presente attualmente in rete.

Yoga e Buddhismo tra pratica e dottrina, che cosa le accomuna

Yoga e Buddhismo tra pratica e dottrina, che cosa le accomuna

Si fa un gran parlare oggi di discipline quali lo Yoga, il Buddhismo, la Meditazione. Molto frequentemente non si tiene conto del fatto che vi sono non un solo Yoga, un Solo Buddhismo, una sola Meditazione, ma una grande varietà di scuole e dottrine, ciascuna delle quali con il proprio corpus di regole ascetico-dottrinali, spesso estremamente variegato. Non è certamente questo il contesto in cui passarle in rassegna. In questo breve scritto non vi sono di queste ambizioni, si tratta soltanto di un tentativo di delineare a brevi linee quanto viene indicato nel titolo, con tutte le lacune che, ovviamente, può presentare una tale scrittura. Certamente, oggi più che mai, data la situazione di incertezza in cui viviamo, si avverte il bisogno, perlomeno da parte di molti, di volgere l’attenzione a qualcosa che possa indicarci una via di uscita da questo stato di cose; di recidere, in qualche modo questa vita che si percepisce, a ben ascoltare, effimera, precaria, illusoria, dolorosa, e poter riemergere (in “un altro corpo”), alla vita che renderà possibile l’accesso alla liberazione nella vita stessa. Proviamo ad indicare sommariamente che cos’è questa liberazione, quali percorsi ci vengono proposti dalle discipline soteriologiche, in particolare dallo Yoga e dal Buddhismo.

Lo studio di discipline filosofico-religiose orientali e, dunque, anche quelle che hanno origine in India, ha sempre comportato per gli studiosi non pochi problemi. La trasmissione orale di principi, regole e tecniche ascetiche che, soltanto dopo diverso tempo (anche quattro secoli dalla loro formulazione, ma spesso parecchio di più) potevano trovare una codificazione in forma scritta, ha determinato la scarsità nonché la sovrapposizione di dati storico-cronologici affidabili.

 

UN INVITO COMUNE: LIBERARSI DALLA SOFFERENZA

Tuttavia, oggi si concorda che lo scopo di tutte le filosofie, religioni e mistiche indiane, dunque anche dello Yoga e del Buddhismo, consiste nel liberarsi dalla sofferenza. L’aspetto centrale del Buddhismo, fatto proprio anche dal Samkya-Yoga e dal Vedanta, è la sofferenza e la liberazione dalla sofferenza. Che tale liberazione sia realizzata mediante la conoscenza, seguendo dunque l’insegnamento del Vedanta e del Samkhya, o la si realizzi attraverso la pratica di determinate tecniche ascetiche, come indica lo Yoga e la maggior parte delle scuole buddhiste, il fatto è che nessuna “disciplina” ha valore se non persegue la salvezza dell’uomo. Per lo Yoga, la salvezza umana è determinata da una illusione:  che la vita umana (sensazioni, pensieri, percezioni) sia identica allo spirito, al Sé, al Purusha. L’uomo confonde così due realtà indipendenti che appartengono a due modi di essere. La liberazione si verifica quando il Purusha, il Sé, acquisisce la sua libertà iniziale. Potremmo intendere  questo Sé come Consapevolezza pura, non derivata, non condizionata da alcunché. La vera identità dell’uomo non è costituita dal complesso corpo-mente. Lo Yoga induce l’essere umano a prendere distanza dal complesso della personalità, al fine di realizzare la vera identità in quanto Sé. L’essenza umana è dunque la pura Consapevolezza stessa.

Da un certo punto di vista l’essere umano è da sempre “libero”. Dunque la liberazione non è qualcosa da ottenere o da compiere.  Semplicemente può accadere di ricordare, di riconoscere ciò che si è dimenticato. Allo stesso tempo però, da un punto di vista più pratico, lo yogin deve sforzarsi per rimuovere i “veli” che impediscono alla pura Consapevolezza di manifestarsi. Occorre rimuovere le “contaminazioni” che macchiano lo specchio della mente oscurando la luminosità del Sé. Il Kaivalya (isolamento) accade quando scompare la più piccola traccia di contaminazione che consente il ritorno allo “stato originario” trascendente ogni condizione della mente. Un qualcosa di indescrivibile, inconoscibile, che sfugge qualsiasi definizione, anche quella dello spazio-tempo.

Il sistema classico dello Yoga è esposto negli Yoga-sutra , 194 brevi aforismi distribuiti in quattro libri. Ne è ritenuto autore Patanjali. Non vi è chiarezza su chi sia costui; gli indiani lo identificano col grammatico dallo stesso nome  che visse nel II secolo a.C. Dato pero che gli Yoga-sutra  a noi pervenuti sono stati evidentemente influenzati dal pensiero della tarda filosofia buddhista, possono risalire al IV o V secolo d.C. Sembra altamente probabile che  gli Yoga-sutra non rappresentino un’opera a carattere unitario, bensì una fusione di frammenti diversi.

Ad ogni modo, per Patanjali, come si è visto, la salvezza si potrà realizzare soltanto attraverso la sospensione dell’attività mentale, in modo da eliminare ogni oscuramento dell’essenza reale del Purusha, determinato, per l’appunto, dall’intelletto. Tale eliminazione delle impurità dal mentale e l’isolamento del Purusha da tutto quello che non gli appartiene viene dunque effettuato mediante l’attuazione delle cosiddette “otto membra dello Yoga”, esse sono:

  1. la Ritenuta, la padronanza di Sé (Yama)
  2. l’Osservanza (Nyama)
  3. la Postura, la Posizione (Asana)
  4. il Controllo del Respiro  (Pranayama)
  5. il Ritiro dei Sensi (Pratyhara)
  6. la Concentrazione (Dharana)
  7. la Meditazione (Dhyana)
  8. l’Assorbimento cognitivo (Samadhi)

 

Sakyamuni, il saggio della famiglia degli Sakya, conosciuto in seguito con l’appellativo di Buddha, “lo svegliato”, conosce le pratiche  ascetico-contemplative dello Yoga. Si può affermare che il Buddha ha percorso i suoi primi passi proprio sul terreno dello Yoga, per poi tuttavia superare le soluzioni proposte a quel tempo, rifiutando l’esistenza di un Purusha e, dunque, di un qualsiasi principio assoluto. Forse, più che un rifiuto tout-court del Purusha, Egli evita di parlarne perché convinto che tale principio sia troppo incline a soddisfare l’intelletto, impedendo al ricercatore di “risvegliarsi”. Anzi, fino a quando l’essere umano non si sia “liberato” non può esser data una esperienza del vero Sé. Per il Buddha ed anche per tutte le forme dello Yoga, la salvezza-liberazione si poteva realizzare solo in seguito ad uno sforzo personale, non ad una mera comprensione intellettuale, teorica; occorre “comprendere” e, contemporaneamente, “sperimentare” la verità. I preliminari dell’ascesi e della meditazione Buddhista sono comunque analoghi a quelli che raccomandano gli Yoga-sutra ed altri testi classici. La meditazione Yoga, come viene interpretata  dal Buddha, ha il preciso scopo di rimodellare la coscienza del ricercatore, vale a dire di creare una nuova “esperienza immediata” della sua vita psichica ed anche biologica.

Il Buddha indica che la liberazione è il raggiungimento del Nirvana, che consiste  nell’oltrepassare il livello dell’esperienza umana per contattare  l’incondizionato. Egli insegnava pertanto la  via e la metodologia  per liberarsi dalla schiavitù,  dalla sofferenza, per  accedere all’incondizionato, al Nirvana. La Nobile Verità della Via che conduce alla eliminazione della sofferenza (quarta nobile verità), comprende gli otto gradini (otto come le “membra” del cammino proposto da Patanjali negli Yoga-sutra) di una disciplina che deve essere seguita per arrivare alla eliminazione della sofferenza e insoddisfazione dell’uomo. Essi sono i seguenti:

  1. Retta Opinione  (Samma Ditthi)
  2. Retto Pensiero (Samma Sankappa)
  3. Retta Parola (Samma Vaca)
  4. Retta Azione (Samma Kammanta)
  5. Retta Vita (Samma Ajiva)
  6. Retto Sforzo (Samma Vayama)
  7. Retta Attenzione (Samma Sati)
  8. Retta Meditazione  (Samma Samadhi)

Si notino le comunanze tra le due Vie,  non solo nelle quantità, ma soprattutto nelle qualità.

 

UNO SGUARDO AL DI LA’ DI TUTTE LE DEFINIZIONI DOTTRINALI.

La caducità dell’esistenza di questo mondo e di tutto ciò che essa è in grado di offrire  è la ragione per cui la vita viene definita come “sofferenza”. È in questo senso che il Buddha definisce “doloroso” tutto quello che viene sperimentato, non negando, tuttavia, che nell’esistenza terrena vi siano anche sensazioni piacevoli e neutre. Il buddhismo (principalmente della scuola degli anziani, Theravada) nega l’esistenza di un principio cosmico e concepisce il Nirvana come “tutto ciò che è un’altra cosa” al riparo di ogni cambiamento.

E questo “qualcosa” che è al riparo di ogni cambiamento, è oltre, o meglio, prima della mente e del corpo. Non può essere visto, udito, odorato, gustato, toccato. Non può essere percepito, compreso, capito, definito. Non è un oggetto. È ciò che conosce e, in quanto tale, non può essere conosciuto. E’ senza nome, eppure, tutto risplende della sua luce. È prima del pensare o sentire. Come percepirlo allora? Ciò che percepisce è la nostra vera natura. Chi sono io? Sono Colui che pone la domanda.

Un semplice invito quindi, a dare uno sguardo a ciò che lo Yoga ed il Buddhismo  (insieme a tante altre tradizioni spirituali, compresa quella cristiana) indicano al di là di tutti i confini e definizioni dottrinali, e cioè quell’abisso inconoscibile, misterioso e meraviglioso che siamo, dove tutte le parole cessano.

 

Essendo senza tempo non richiede alcun cammino da percorrere, nessun debito da scontare. Perché non ammette niente che sia giusto o sbagliato, né riconosce giudizi o sensi di colpa. È un amore assolutamente incondizionato. Semplicemente aspetta con attenzione, chiarezza, compassione e delizia il mio ritorno quando mi muovo via da esso.                  

Tony Parsons

Praticare yoga di coppia: ecco tutti i vantaggi

Praticare yoga di coppia: ecco tutti i vantaggi

Nella pratica dello yoga in coppia possiamo riscontrare notevoli benefici, che riguardano non solo l’esecuzione degli asana o la migliore percezione del corpo nello spazio. Infatti, toccano l’aspetto forse più importante: perché e in che modo relazionarsi con l’altro.

È una tecnica che induce a lavorare sul corpo necessariamente con una qualità di ascolto e di attenzione costante  e soprattutto con un’attitudine di rispetto. Lo spazio individuale di ciascuno di noi è da considerarsi uno spazio sacro e come tale va trattato.

Nel praticare lo yoga in coppia ogni volta che cerchiamo un contatto, un appoggio, un sostegno chiediamo il permesso al compagno di pratica e, nello stesso tempo offriamo il nostro sostegno con amorevolezza ed umiltà.  È una modalità che avvicina e crea complicità e condivisione. In primis poi, stabilisce una direzione verso quello che lo yoga indica come un obiettivo necessario e importante nella pratica come nella vita: l’apertura del cuore.

Posizioni di yoga in coppia: la piena fiducia nell’altro

La pratica di yoga in coppia è un invito al lasciarsi andare, a prendere fiducia in se stessi attraverso l’altro;  con questa tecnica è come se ci mettessimo davanti a uno specchio dove impariamo a rivolgerci all’altra persona come a noi stessi, con la stessa attenzione e la stessa cura.

Fare yoga in coppia è una tecnica solitamente utilizzata in molte scuole di formazione per l’insegnamento dello yoga.  Questa tecnica, se inserita nella parte didattica di insegnamento degli asana, da un punto di vista squisitamente tecnico, aiuta a:

  1. correggere le disarmonie posturali grazie al progressivo adattamento con il corpo del compagno,
  2. amplificare la sensibilità propriocettiva,
  3. comprendere meglio  il principio del non sforzo, di stabilità e di permeabilità respiratoria.

L’esperienza dello yoga in due  consente di riconoscere in modo diretto tutte le resistenze e le tensioni anche nascoste, che spesso incontriamo nell’assumere una posizione in solitudine e quanto invece, affidandoci totalmente all’altro possiamo renderla semplice e abitabile, trasformando anche noi stessi.

È molto utile al termine di una sessione di pratica offrire uno spazio di verbalizzazione dove la coppia può condividere gli effetti riscontrati e amplificare  così la presa di coscienza di quanto intimamente siamo tutti sempre connessi e collegati.  

Perché fare yoga in coppia è consigliato

Normalmente l’atteggiamento di chi segue un corso di yoga è un atteggiamento di tipo autoreferenziale.  La persona prende posto sul proprio tappetino, segue le indicazioni dell’insegnante, preoccupata prevalentemente di eseguire le posizioni yoga in modo corretto e di raggiungere i benefici preposti. Poi, esce dalla seduta, più o meno soddisfatta del risultato raggiunto.

In tante occasioni e facile veder sorgere anche un certo atteggiamento di competizione tra i partecipanti di un gruppo.

Se la pratica dello yoga si limitasse solo a questo, il risultato sarebbe quello di rendere sterile e a lungo andare anche noioso ciò che viene svolto, con il risultato di non fidelizzare le persone alla pratica.

Le posizioni di yoga in coppia ci insegnano, al contrario, a percepirci più veri ed autentici. Nel momento in cui riconosciamo e tocchiamo, senza giudizio, le nostre stesse difficoltà nell’altro, l’aiuto e la condivisione inevitabilmente non possono che trasformarsi in un intento reciproco, liberandoci dalla presa egoica.

Le posizioni yoga in una coppia di fatto

Gli effetti positivi di praticare le posizioni yoga in due sono riscontrabili anche nelle coppie di fatto. Qui, a differenza di altre discipline, la pratica di yoga in coppia non mira ad accendere la competitività, anzi rafforza la relazione stessa, grazie ad una maggiore complicità, intimità e distensione.

Condividere l’esperienza insieme sul tappetino aiuterà a sottolineare  il valore dell’unione nel rapporto di coppia, così come la  grande  risorsa di poter fare fronte comune anche nelle difficoltà della vita.

Un unico corpo, un unico respiro. Le posizioni yoga in coppia ci spingono a fermarci ad ascoltare il nostro corpo e quello del nostro compagno con una consapevolezza piena e rilassata. Una modalità che interpreta molto bene il concetto di ahimsa – la non violenza.  

La pratica spirituale del tantrismo hinduista

La pratica di yoga in coppie, la cui evoluzione più moderna oggi incontriamo nello yoga acrobatico o acro yoga, tecnica dedicata ai più giovani e anche molto divertente, in realtà vede affondare le sue radici in una pratica spirituale molto antica, il tantrismo hinduista. Quest’ultima è l’unica nella quale troviamo la pratica della meditazione in coppia e dove la presenza dell’altro era ritenuta utile ad approfondire una conoscenza interiore oltre ogni dualità e separazione.

Allo stesso modo,  praticare le posizioni yoga in coppia aiuta a realizzare una mente meditativa.  La necessaria  attenzione all’incontro  con il  compagno rende la mente concentrata sul momento presente restituendola  alla sua natura originaria  di calma e stabilità.