Arriva un tempo nella pratica in cui per progredire si rende necessario cambiare passo alla nostra mente.
L’illusione di poter essere qualcosa di diverso da ciò che siamo, lascia il passo ad un’accettazione vera certa e profonda di noi stessi e della nostra realtà.
Il pensare lascia spazio al sentire, la riflessione alla sensibilità, il controllo al lasciarsi andare e poiché non si può sentire e pensare allo stesso tempo, sorgerà naturale l’esigenza di doversi fermare e scendere un po’ più all’interno per poterci incontrare.
La nostra storia non la troviamo scritta sui libri. Ognuno di noi ha un suo corpo, un proprio vissuto e la pratica ci restituisce l’opportunità di conoscerci ed amarci nelle nostre diversità per contemplarne la ricchezza e trasformarla in nutrimento per noi stessi e per il bene comune.
Quando il sentire si fa strada, questo ci mette a nudo, ci svuota da tutte le sovrastrutture mentali, dai condizionamenti di senso che ci siamo dati per riconoscerci ma soprattutto per la paura di incontrare la nostra fragilità; incontrare quella dimensione di vuoto che spesso spaventa, ma che è l’unica strada per ritrovare il senso vero di chi siamo.
L’attività dello yoga si può considerare un’attività un po’ pionieristica perché ogni volta che ci consentiamo di scendere al nostro interno possiamo scoprire quanti e quali castelli la nostra mente abbia costruito fino a prendere in affitto la nostra vita e la realtà di tutto ciò che ci circonda.
La osservazione più sorprendente? La pace e la guerra, l’amore e l’odio, il buono, il salutare o il cattivo, il bello e il brutto non sono dicotomie o realtà precostituite, ma sono parte integrante di noi, noi siamo tutto questo, ed è solo la nostra mente a creare le condizioni per far emergere di volta in volta l’una anziché l’altra.
Il cambiamento che cerchiamo non avviene dietro uno schiocco di dita, occorre sviluppare un intento chiaro che è quello di educare la nostra mente per renderla chiara e cognitiva come è la sua vera natura.
Detto questo, l’invito è: riconoscere e lasciare andare, abbandonare la banale retorica, le verità in tasca, i condizionamenti tutti, per accogliere, amorevolmente, limiti e imperfezioni perché quando si abbandona, la vita torna a pulsare per quello che è e noi torniamo ad essere liberi.
Andare oltre la forma, per progredire: accettare dove il corpo può arrivare nelle forme più intermedie e soggettive e, riconoscere in quella posa, il punto di partenza e mai quello di arrivo. Permettersi di restare nella complessità silenziosa dell’immobilità per pacificare con se stessi e con tutta la nostra vita.
Possiamo addestrarci affinché le emozioni non siano più l’ago del termometro delle nostre azioni.
Prendendo a prestito una riflessione di Alexander Lowen: la vita appare come “quel procedere di un ubriaco per strada, ma che sente nel suo inciampo, tutto il senso del mondo”.